Brevemente per chi non ha voglia o tempo:
Propongo il motto “Condivisione, solidarietà, dignità” ponendolo a confronto con quello della Rivoluzione Francese.
Nei paesi così detti “democratici” non può essere una aspirazione la libertà, che, formalmente, esiste. Ciò che manca è che questa libertà sia sostanziale. Il passo avanti è quindi costituito, come da molti ormai si dice, dalla partecipazione, che preferisco chiamare, perché mi sembra più incisivo, “Condivisione”, la condivisione da parte di ogni cittadino del potere mediante appunto forme di democrazia partecipativa, ma soprattutto introducendo istituti di partecipazione economica, come la cogestione nelle aziende maggiori.
La parola fratellanza è nella realtà una mera astrazione, una chimera, più lontana dalla realtà di una utopia. La “Solidarietà” appare invece un concetto tangibile e realizzabile concretamente almeno in buona misura mediante leggi a ciò ispirate.
Il termine uguaglianza, ovviamente inteso come uguaglianza davanti alla legge, è apparentemente chiaro, ma, nella sua attuazione, risulta sfuggente, visto che, in pratica, le differenze di trattamento da parte della società nei riguardi dei singoli sono enormi. È allora il concetto della “dignità” sacra ed inviolabile di ogni essere umano che va introdotto e messo in atto dalle leggi prima e dalla prassi quotidiana poi.
L’auspicio è quindi che i movimenti politici italiani più progressisti, che devono saper disegnare la trasformazione della società, intraprendano una lotta politica di lungo periodo che veda trasformazioni profonde della società e sappiano così chiamare a raccolta i singoli per unirsi nella lotta per la conquista per tutti di:
CONDIVISIONE
SOLIDARIETA'
DIGNITA'
Più in dettaglio:
Il motto della rivoluzione francese, che ha costituito un pilastro, se non le fondamenta, dell’epoca moderna, è ancora valido dappertutto ? O dove esiste una parvenza di democrazia, anche imperfetta, è necessario individuare nuovi obiettivi ?
Le potenze riunite al Congresso di Vienna, ciecamente illuse che la storia possa tornare indietro, dopo la caduta di Napoleone avevano “restaurato” i poteri assoluti delle vecchie dinastie nella speranza di poter cancellare 25 anni di sconvolgimenti politico-militari come se mai fossero avvenuti. Ma il mondo, come ovvio, non era più lo stesso.
Si sa come i nuovi stati dovettero da subito affrontare un diffuso malcontento che soprattutto proveniva da quella classe di mezzo, la borghesia, che in maggior misura si era giovata delle riforme napoleoniche. Nascevano così il liberalismo politico ed il liberismo economico, in nome soprattutto della prima parola del motto della rivoluzione francese: liberté.
Libertà: ma cos’è ?
La sua definizione si trova in quel fondamentale documento prodotto dalla rivoluzione francese che è la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789:
Articolo 4 La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri …….Articolo 5 La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società……...Articolo 10 ….Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose…..Articolo 11 ……. ogni cittadino può parlare, scrivere, stampare liberamente ……….
Nobilissimi concetti che indussero migliaia di uomini, soprattutto giovani, a far propri nuovi ideali di vita, ma purtroppo anche di morte, e di anelito alla libertà e diedero vita ai movimenti che portarono alla nascita degli stati moderni guidati secondo i principi del liberalismo e della democrazia.
Ma siamo sicuri che si sia colto il segno ? Siamo sicuri che l’uomo non abbia tradito la sostanza di ciò che lo spirito della rivoluzione francese aveva propugnato ? E’ libertà vera quella in cui ci troviamo a vivere oggi ?
fare tutto ciò che non nuoce ad altri . E’ ovvio che è questo il limite del concetto di libertà, ma è altrettanto evidente, osservando il mondo che ci circonda, che si tratta di un concetto astratto che lascia all’uomo, ossia alle sue leggi, la possibilità di spaziare fra blande limitazioni della libertà di nuocere agli altri e vere e proprie negazioni della libertà in nome di vari principi, come la giustizia sociale, o la religione.
Trascuriamo i casi dei paesi, che ancor oggi sono parecchie decine, in cui un uomo ed i suoi accoliti detengono il potere, poiché si tratta sostanzialmente di casi di chiara negazione della libertà, o dei paesi in cui si applicano leggi religiose che negano i principi della libertà, e questa rimane quindi un anelito, o dei paesi in cui vige un’ideologia che privilegia una pseudo eguaglianza che può essere imposta soltanto mediante la privazione di alcune libertà (si ha quindi la contraddizione fra libertà ed eguaglianza).
Osserviamo la libertà nei paesi che sostengono esplicitamente e a chiare lettere la libertà, così come enunciata dalla rivoluzione francese, che si sono dati statuti e leggi che ne riprendono i principi. Paesi detti democratici.
Distinguiamo libertà politica e libertà economica.
Vige in questi paesi, in maniera più o meno perfetta, la libertà di pensiero e di parola, di associazione, di eleggere i propri rappresentanti. La libertà politica.
La proprietà è libera, c’è libertà di intraprendere un’attività economica. La libertà economica.
Ma sono vere o false libertà ?
La libertà politica non è forse vincolata dalla gabbia dell’organizzazione politica? Qual è la reale partecipazione del cittadino alla vita politica aldilà della manifestazione del voto? Entrare nell’olimpo della politica implica – il più delle volte - l’accettazione di condizionamenti che sono in realtà vere e proprie negazioni della libertà di pensiero e costituiscono spesso un sostanziale distacco dalle reali esigenze della gente, a prescindere dalla collocazione della formazione politica in cui si milita.
C’è libertà politica dove la manifestazione delle proprie idee è limitata a pura e semplice e soprattutto sterile libertà di mugugno, quella stessa ritenuta opportuna valvola di sfogo dagli antichi regimi anteriori alla rivoluzione francese ?
C’è libertà politica se non esiste alcuna possibilità di far sentire la propria parola, anche mediante i propri rappresentanti con i quali si abbia un minimo di contatto ?
C’è libertà politica dove non esiste alcuna possibilità di contestare l’operato dei propri rappresentanti eletti ai vari livelli dell’amministrazione pubblica, eventualmente anche revocandone il mandato ? (l’ostracismo di Atene).
C’è libertà politica se vengono prese decisioni dal governo del paese che risultano a favore di determinate categorie, o di determinate zone, e contrarie a quelle dell’intera collettività senza che sia possibile impedirne l’applicazione ?
E la libertà economica ?
C’è libertà dove è possibile lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ?
C’è libertà dove chi è al governo dell’impresa è l’interlocutore forte in grado di esercitare un potere sull’interlocutore debole, il prestatore d’opera ?
C’è libertà dove il lavoro non è un diritto, ma una conquista spesso precaria ?
C’è libertà dove la gestione della cosa pubblica, in particolare dell’economia pubblica, e del sistema economico in generale non mantengono il contatto quotidiano con le esigenze della collettività ?
C’è libertà dove il sistema economico è prigioniero di grandi potentati economici in grado di governare il mercato dietro il paravento di una illusoria libera concorrenza ?
C’è libertà dove il consumatore è indotto, da una pubblicità ingannevole ed incontrollata, al consumo di prodotti non consoni alle sue esigenze ?
E allora cos’è questa sbandierata libertà, se non la libertà di pochi, o pochissimi, di sfruttare la quasi totalità della popolazione, assolutamente non libera, ma anzi prigioniera di una società studiata ad uso e consumo di quei pochi ?
Non è forse questa una forma nuova dell’assolutismo di un tempo, accuratamente dissimulata e quindi molto più pericolosa perché illusoria ?
Forse è la parola libertà che va cambiata perché vaga, perché ingannevole. Bisogna che l’uomo sappia di dover volere qualcos’altro. Non solo una parola nuova, che potrebbe risultare a sua volta vuota, ma bensì concetti nuovi.
Qualcosa che implichi libertà ma esprima ben di più e soprattutto di più voglia dire in concreto e copra quel che manca al concetto di libertà.
Il limite che sostanzialmente abbiamo trovato nel concetto di libertà è la sua non corrispondenza al concetto di potere. La libertà non possiede implicitamente il potere, che resta, nei fatti, di altri. Quello che manca è la condivisione del potere.
Ed è quindi in ciò che va trovato il nuovo concetto. Non è libertà soltanto che deve essere riconosciuta ad ogni singolo individuo ma piuttosto:
CONDIVISIONE DEL POTERE
Concetto molto più complesso di quanto non lo sia quello di libertà.
Assicurare condivisione non è facile e soprattutto richiede una trasformazione culturale non indifferente, anzi quasi rivoluzionaria e di non breve periodo.
Può essere un periodo di evoluzione sociale a portare verso il nuovo traguardo della condivisione del potere. E’ in ciò che sta la vera difficoltà più che nella esplicitazione del concetto.
Quindi, la trasformazione, necessariamente indotta da una volontà politica, dal concetto di libertà a quello di condivisione a cosa deve portare ? Probabilmente a risolvere i limiti della stessa libertà, come espressi precedentemente.
Da libertà politica occorre evolvere a condivisione politica, una condivisione che, come s’è detto, è oggi più formale che sostanziale.
Ma la crescita culturale dovrà poggiare su una nuova concezione del sistema così detto democratico fatto di istituzioni rispondenti alla filosofia della condivisione in cui in primo luogo l’imprescindibile esistenza dei partiti non implichi l’inquadramento di chi alla politica voglia dedicarsi alle direttive provenienti dall’alto, come ordinariamente avviene.
La democrazia, come finora conosciuta, si basa su partiti in cui periodicamente si svolgono congressi apparentemente volti alla formazione della volontà degli stessi, ma in realtà pure e semplici contese elettorali fra pochi candidati. Indubbiamente ciò costituisce una scelta da parte dei militanti, ma poi chi risulta vincitore costituirà negli anni seguenti la “volontà del partito” a cui ogni militante dovrà adeguarsi. Anche nel più democratico dei partiti la gestione degli stessi si basa su questi principi. La militanza in un partito non è quindi l’adesione ad un’idea, ma piuttosto ad una linea politica contingente.
Bisognerà dunque rivedere il concetto di partito e probabilmente spostarsi, almeno per i partiti che si auto dichiarano “progressisti”, verso i liberi movimenti ideologici in cui si abbandoni la forma della guida monocratica per passare a direttori che siano più che altro garanti del rispetto o eventualmente dell’evoluzione dello statuto del movimento che ne enuncia i principi ideologici.
Il militante, se eletto ad una istituzione, risponderà soltanto ai suoi elettori della rispondenza del proprio operato ai principi ispiratori del movimento, e alla generalità dell’elettorato agli interessi della comunità intera.
Ciò si collega inevitabilmente all’altro punto di critica all’attuale sistema di “libertà”. L’eletto dovrà mantenere il contatto permanente con il proprio elettorato, ben più importante di qualsiasi riunione “di partito”, contatto che deve garantire la percezione costante delle istanze della popolazione da cui ha ricevuto mandato, e non semplicemente dai propri elettori, contatto che deve essere sia un percepire i bisogni popolari, sia un rendere conto delle attività svolte, e del senso politico delle decisioni prese.
Perché ciò non risulti sterile ma sia un concreto possesso del potere nella mani di ogni singolo individuo, che sia così realmente partecipe della vita della polis, deve essere possibile che, con le modalità più garantiste e rigorose, agli elettori sia assicurata la possibilità di mettere in mora i propri eletti e, quindi, eventualmente, di revocarne il mandato.
Riguardo alla libertà economica, si tratta del campo più delicato poiché ancora a distanza di quasi 230 anni dalla rivoluzione francese e un secolo dopo la rivoluzione bolscevica e dopo, e probabilmente a causa del fallimento di quest’ultima, non si è ancora realizzata la libertà di chi presta la propria opera.
Il liberismo economico, che costituisce la base teorica del capitalismo è il sistema vigente in tutto il globo, ora che sono scomparsi quasi tutti i regimi comunisti e che si sono trasformati in sistemi sostanzialmente capitalistici i residui paesi che si dichiarano “comunisti” con l’aggravante di regimi politici tutt’altro che liberali. Un esempio per tutti quello della Cina.
Peraltro i mali del sistema capitalistico mondiale si sono nell’ultimo ventennio ulteriormente aggravati per l’effetto combinato di due fenomeni: la scomparsa del contraltare costituito dai paesi comunisti fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e al dissolvimento dell’URSS nel 1991, e l’affermarsi della globalizzazione che, anziché portare sviluppo economico-sociale ai paesi del cosiddetto “terzo mondo” ha dato vita da una parte ad una sorta di neo-colonialismo (con le multinazionali al posto degli stati) e dall’altro al sorgere di una deleteria concorrenza del mondo del lavoro dei paesi meno sviluppati economicamente nei confronti del mondo del lavoro dei paesi industrializzati, con conseguente forte indebolimento di quest’ultimo a causa sia dello spostamento delle produzioni da questi ai primi sia dell’arrivo di grandi quantità di manodopera spesso disposta al lavoro in nero.
Non ci sarà libertà per tutti i lavoratori del mondo finchè perdurerà questo stato di cose, si avrà, come avviene in atto, forte soggezione nei confronti dei grandi potentati economici mondiali a cui si agganciano anche le imprese più piccole.
Gli effetti sono quelli citati, precarietà del lavoro e crescita delle retribuzioni inferiori alla crescita della produttività generata dal progresso tecnologico, con l’aggiunta di scelte economiche da parte dei governi indotte sostanzialmente dalla lobby dei grandi capitali con il conseguente venir meno della protezione dell’individuo, sia quando indossa le vesti del prestatore d’opera, sia quando indossa quelle del consumatore.
Il passaggio a sistemi più consoni agli interessi della maggioranza sarà quindi tutt’altro che facile, ma appare analogo a quanto individuato sul piano politico: la condivisione.
Dovrà essere compresa da ognuno la necessità, anche in questo versante, della trasformazione, prima del modo di ognuno di vedere la società e poi della società stessa.
Alla condivisione politica, quindi, dovrà aggiungersi la condivisione “economica”, e dovrà affermarsi il principio che le imprese, da una certa dimensione in su debbano essere guidate, o addirittura possedute, anche dagli stessi lavoratori, così che almeno le decisioni di maggior rilievo siano di tutti coloro che posseggono i fattori della produzione, il capitale da una parte ed il lavoro dall’altra.
Anche qui siamo in presenza di una trasformazione radicale, stiamo parlando della nascita di un sistema economico non più esattamente “capitalistico”, ma neanche “collettivistico”, che si basi sul principio che capitale e lavoro siano sullo stesso piano, nella conduzione della vita economica della collettività con il conseguente cessare del predominio del capitale nei cui confronti il lavoro non sia più soggetto subordinato.
Ma anche una seconda parola del motto della rivoluzione francese va rivisto.
Si tratta della “fraternité”
La fratellanza è la parola rimasta più vuota di contenuti anche dopo la rivoluzione francese e fino ad oggi, e non solo nei paesi in cui si è affermato il capitalismo, che del concetto di fratellanza è la negazione, ma anche nei paesi in cui è stato realizzato il comunismo, in cui, come hanno descritto Georg Orwell in “La fattoria degli animali” o Milovan Gilas in “La nuova classe”, la realtà sconfisse la teoria, con l’affermazione di un gruppo dirigente che mantenne quei paesi in condizioni di negazione del principio della fratellanza, come, del resto, del principio della libertà e perfino di quello dell’eguaglianza, concessa al popolo nei termini decisi dal gruppo al potere.
Cosa, quindi, può valere quanto questo nobilissimo concetto della fratellanza, ma costituisca un principio più concretamente attuabile ?
La fratellanza va probabilmente sostituita con la
SOLIDARIETA'
Si tratta di introdurre un principio ovvio eppure nuovo nelle istituzioni.
Tutta la vita dello stato, nella normativa e nella prassi, deve essere improntata a principi di solidarietà.
Ciò vuol dire che, sulla base di principi enunciati dalle leggi costituzionali del paese, ogni norma non possa prescindere dalla solidarietà verso tutti coloro che si trovano nel territorio nazionale con l’aggiunta dell’obbligo, nella conduzione del paese, che ogni atto amministrativo, giuridico e politico sia sempre improntato a questo principio base.
In altri termini ogni atto dell’amministrazione pubblica non rispondente a principi di solidarietà deve essere annullabile.
Che dire, infine dell’égalité ?
Cosa deve intendersi per eguaglianza ?
L’articolo 1 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, promulgata dall’ONU nel 1948, enuncia che tutti gli uomini sono “uguali in dignità e diritti” .
La grande intuizione di questa espressione sta nell’aver introdotto il concetto di “dignità”. Ed è probabilmente in questo senso che può evolversi il concetto di eguaglianza.
L’eguaglianza fra gli uomini nei diritti è, dopo la rivoluzione francese, concetto ormai radicato ed indiscutibile, almeno nei paesi che si proclamano democratici. E in vero, se non nei fatti, almeno in teoria, tutti i paesi sostengono ormai l’uguaglianza nei diritti. Poi, come si sa, c’è da vedere cosa avviene nella realtà.
Gli uomini, nella pratica della vita sociale, non sono tutti uguali anche perché non si prospettano tutti uguali, avendo ognuno, proprie caratteristiche ed anche un proprio peso nella vita sociale. Gli uomini hanno eguali diritti ma non ricevono eguale trattamento dalla società.
Oggi, in particolare, viviamo in una società che sempre più si allontana dall’eguaglianza per realizzare sempre maggiori disuguaglianze, spesso in nome di una presunta libertà. Contro tutte le disuguaglianze abnormi ed ingiustificate si deve tenacemente lottare per ottenere che a tutti sia garantito un tenore di vita confacente con la dignità umana, un tenore di vita minimo al di sotto del quale non si deve andare.
Allora è appunto nel concetto introdotto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che va trovata l’innovazione, occorre che a tutti gli uomini sia assicurata la medesima
DIGNITA'
Ancora una volta ci troviamo in presenza di una profonda innovazione concettuale nelle istituzioni. Anche in questo caso, l’innovazione nella struttura della società deve consistere nell’introduzione nelle leggi costituzionali del principio che ogni norma, così come ogni atto pubblico, debba rigorosamente rispettare il principio che tutti gli uomini hanno la medesima dignità inviolabile principio che non deve subire né limitazioni né condizionamenti.
Tutto ciò può indubbiamente apparire utopistico. Probabilmente costituisce un obiettivo a cui tendere a cui non si perverrà, almeno in tempi brevi.
Tuttavia l’evoluzione sociale verso questi concetti è una strada percorribile e sicuramente può apportare alla società miglioramenti sensibili in termini di condizioni di vita della gente comune, in un’epoca in cui, per effetto di tante variabili, sia dal punto di vista sociale, che dal punto di vista economico, la vita quotidiana per la quasi totalità della popolazione è divenuta estremamente difficile.
Un movimento progressista deve oggi “giustificare” il proprio considerarsi “progressista” individuando innovazioni quali quelle descritte che realmente possano portare la “gente comune” a migliorare le proprie condizioni di vita.
Deve, quindi, saper guardare lontano, deve disegnare trasformazioni radicali di una società che non assicura nella realtà nulla di positivo ai singoli non appartenenti a caste privilegiate, deve darsi una organizzazione che l’avvicini alla gente, deve intraprendere una lotta politica di lungo periodo che veda trasformazioni profonde della società e chiamare così a raccolta i singoli per unirsi nella lotta per la conquista per tutti di:
CONDIVISIONE, SOLIDARIETA', DIGNITA'